GIORGIO ANTONUCCI

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Cominciai a capire che la medicina non funzionava quando entrai negli ospedali e mi accorsi che le relazioni con i vivi sono condotte con la stessa indifferenza che si ha verso i morti. E scoprii che la nostra medicina è un intervento sull’oggetto da accomodare. [...]

 Appare bizzarro, ed è terribile e disumano che, nel momento in cui una persona sta soffrendo, non ci sia il minimo interesse umano per quanto prova. È un modo che facilita la morte, un modo accettato passivamente da tutti, come se fosse naturale. L’ospedale così com’è oggi non risponde assolutamente alle necessità dei cittadini; è un luogo dove si va per essere riparati come degli oggetti, o dove si va a morire senza che nessuno prenda in considerazione il fatto che non siamo degli oggetti, bensì persone.(Giorgio Antonucci)

continua

Sulle tracce di un poeta pazzo: Giovanni Antonelli

Il libro di un pazzo

Il libro di un pazzo, l'autobiografia di Giovanni Antonelli, una delle figure più eccentriche, scomode e dimenticate della società letteraria italiana a cavallo tra Otto e Novecento.
Nell'introduzione al libro, riprodotta qui di seguito, racconto qualcosa di questo strano personaggio, cui sono riuscito a restituire anche una data di nascita e di morte, fino ad oggi ignote, rovistando negli archivi.

poeta p

L'introduzione è accompagnata da una pagina dell'autobiografia di Antonelli, quella relativa all'entrata nel
manicomio di Fermo, nel 1876, primo di una lunga serie (mg)].
Pochi conoscono Giovanni Antonelli, e chi lo conosce l’ha incontrato in modo fortuito. Chi scrive, per esempio, ha
incrociato per la prima volta il suo nome in un libro di Giovanni Martinelli intitolato 100 illustri. Personaggi del
fermano (Andrea Livi, Fermo 2010) dove si legge che Antonelli fu un poeta anarchico e antiborghese nato nel
1851 o 1852 a Sant’Elpidio a Mare e morto chissà dove dopo il 1909. Accanto alle righe di Martinelli campeggia
un ritratto del personaggio, autore di un’autobiografia intitolata Il libro di un pazzo, da cui quel ritratto proviene.
Sono bastate queste poche informazioni per accendere in me una profonda curiosità: chi era quel poeta, e perché
un suo concittadino, che peraltro si interessava alla poesia da più di vent’anni, non ne aveva mai sentito parlare?
Da quel giorno la figura di Giovanni Antonelli mi accompagna e in qualche modo mi ossessiona, tanto che a lui ho
dedicato un poemetto in uscita per la casa editrice svizzera Casagrande e intitolato Uno di nessuno. Storia di
Giovanni Antonelli, poeta. Solo una preziosa e fortuita coincidenza mi ha permesso di scoprire che, mentre il libro
di versi veniva impaginato a Bellinzona, Giometti & Antonello stavano allestendo a Macerata la pubblicazione che
avete sottomano, e che finalmente rende giustizia a una delle figure più eccentriche, scomode e
incomprensibilmente dimenticate della società letteraria italiana a cavallo tra Otto e Novecento.
Giovanni Antonelli fu, per usare alcune definizioni che gli sono state attribuite da chi lo conobbe di persona, un
«genio da manicomio» (Enrico Morselli), un «poeta pazzo» (Giacinto Stiavelli), o ancora uno «zingaro poeta, pieno
di ingegno» (Aldo Barilli): un autodidatta inquieto e terribilmente vivace, nato in un paesello confitto nel cuore
dello Stato pontificio e destinato, forse anche per questo, a sviluppare sin da giovanissimo una feroce allergia per
i preti, per l’ordine e le convenzioni borghesi, per il conformismo e l’immobilismo della società del suo tempo.
Incapace di adeguarsi e di trovare un posto nel mondo, Antonelli spese la sua vita girovagando disperatamente a
piedi per l’Italia, entrando e uscendo di continuo da carceri e manicomi, come l’autobiografia che state per
leggere, iniziata con buona probabilità nel 1890 in una cella del manicomio di Ancona, documenta fedelmente,
spesso senza alterare la realtà degli eventi, e anzi dipigendola con straordinaria precisione (segno lampante, per
un lettore avvertito, del fatto che spesso la follia è l’etichetta che la società ha avuto bisogno di attribuire a chi
non aderiva al suo ordine e alla sua norma, come ci ha mostrato Foucault).
Le vicende raccontate in queste pagine sembrano quelle di un inverosimile romanzo picaresco: un ragazzo
abbandona la famiglia e il suo paese, affetto a suo dire da «cretinismo», si arruola in marina all’indomani
dell’Unità d’Italia e si trova coinvolto in un’infinita serie di soprusi, umiliazioni, incarcerazioni, evasioni, agguati
che lo costringono a una vita di sofferenza e reclusione, ma anche di insubordinazione e anarchismo, di slanci
ideali e poetici, perché il protagonista si sente soprattutto uno scrittore e un poeta, devoto ai suoi scartafacci
continuamente perduti e ritrovati, nella sua infinita peregrinazione. Solo che questa vicenda avventurosa e
persino troppo romanesque non è altro che la vita realmente vissuta da Antonelli, consegnata alle pagine del
Libro di un pazzo per essere salvata e riscattata: due anni di ricerche di archivio, intraprese per il bisogno di dare
un volto e una storia a questo bizzarro compagno, mi hanno permesso infatti di ricostruire e confermare una parte
degli episodi raccontati dall’autore, che affida alla memoria e alla puntigliosa annotazione delle vicende vissute la
sua unica possibilità di dare una forma alla sua esistenza, tanto che non abbiamo ragione di credere che
Antonelli, pur esagerando e a tratti delirando, inventi di sana pianta troppe cose.
Il primo degli enigmi da risolvere, quando ho iniziato a seguire le sue tracce, riguardava la data di nascita, che
probabilmente quelli che si sono occupati di lui desumevano dal capitolo II della prima edizione del Libro di un
pazzo, stampata a Civitanova Marche nel 1892 da Domenico Natalucci. Qui l’autore racconta che «a dieci anni
incompiuti», il 29 agosto 1861, si arruolò come mozzo di marina. Ma Il libro di un pazzo l’anno dopo viene rivisto
e ripubblicato a Reggio Emilia, e il passo relativo all’arruolamento, forse per un’incontenibile smania di
grandezza, riduce ulteriormente l’età di quel «primo passo fatale»: «otto anni incompiuti», stavolta. Se
aggiungiamo che in calce a un primo scritto autobiografico del 1877 [1], felicemente provocato dagli stimoli del
dottor Enrico Morselli (direttore del manicomio di Macerata), Antonelli si era firmato «Il martire autobiografista
Giovan Virgilio A..., di anni 28», la faccenda si ingarbuglia ancora di più: 1851, 1852 o 1849? Nessuna delle tre,
perché se l’anagrafe sembra tacere del tutto, i registri parrocchiali attestano che Giovanni Luigi Benedetto
Antonelli nacque nella notte («circa auroram») tra il 20 e il 21 marzo 1848 a Sant’Elpidio a Mare (oggi provincia di
Fermo), quartogenito del padre Damaso e della madre Carla (o Carolina) Teatini «ex Portu Firmi». È l’aurora del
primo giorno di primavera dell’anno che resterà alla storia come la Primavera dei popoli: per i significati simbolici
che si potrebbero attribuire a questa triplice coincidenza, la realtà per una volta sembra più arguta di qualsiasi
fantasia.
Il primo passo fatale, l’arruolamento volontario a tredici anni, equivalse per Antonelli all’oltrepassamento della
linea d’ombra: dopo l’educazione ricevuta in casa per mano del maestro Marcello Martinelli, il ragazzo spiccò
definitivamente il volo dal nido natale e a Sant’Elpidio a Mare, da quel momento in avanti, non fece più stabile
ritorno, se non nelle soste e negli interstizi della sua vita randagia che questa autobiografia, a tratti
irresistibilmente comica, vi permetterà di ripercorrere. Volendo riassumere, senza togliere al lettore il gusto della
scoperta, basterà dire che Antonelli in mare subirà violenze fisiche e che, una volta ottenuto il congedo illimitato
nel 1873, abiterà in un numero imprecisabile di prigioni e in ben sei manicomi, tra Marche e resto della penisola,
braccato e arrestato di continuo dalla «sbirraglia pontificia» e da altri rappresentanti di un’Italia postunitaria
profondamente diversa da quella sognata negli anni del Risorgimento.
Quando, nel marzo 1876, si presenta per la prima volta al manicomio di Fermo, la Modula informativa per
l’ammissione dei pazzi lo dichiara «miserabile», quanto a condizione sociale, mentre per ciò che riguarda il
carattere morale lo definisce «irritabile, altero, intollerante, di temperamento sanguigno nervoso», affetto da «follia
malinconica, con tendenza al suicidio». «Una delle abitudini più ordinarie», continua la Modula, «è di andare a
zonzo, di non star fermo in un luogo», mentre «la di lui occupazione più gradita, quando era fermo e obbligato a
star rinchiuso, erano lo scrivere sopra argomenti diversi, [e il] comporre poesie, anche estemporaneamente».
Nelle pagine del Libro di un pazzo, infatti, sorprenderemo più volte Antonelli a improvvisare e vendere versi, per il
pubblico dello Sferisterio di Macerata o per un uomo prossimo alle nozze. Di questi testi, per la maggior parte
sonetti, restano diverse e quasi irreperibili testimonianze editoriali, elencate nella bibliografia che segue. Anche Il
libro di un pazzo presenta una seconda parte composta solo di Rime (più di 140!), a conferma dell’intenzione di
Antonelli di apparire ai lettori prima di tutto come poeta. Questa edizione, per scelta dell’editore, ne propone solo
un piccolo campione, come avevano già fatto in minima parte Pier Carlo Masini [2] e Giuseppe Iannaccone [3]:
sarà sufficiente, in ogni modo, per percepire la vitalità e la profondità di un dettato che deve molto ai grandi
modelli di Tasso, Leopardi, Giusti e Carducci, letti e studiati soprattutto nel manicomio di Macerata grazie
all’intuito e all’intelligenza di Morselli, ma che non merita di essere del tutto dimenticato o liquidato come fece, tra
gli altri, Cesare Lombroso. Di Antonelli infatti si occupò anche il famoso psichiatra e antropologo nella quarta
edizione (1882) del suo Genio e follia, dove riprodusse uno stralcio della prefazione di Morselli al già citato Un
genio da manicomio (1877), facendolo precedere da un giudizio che l’interessato si legò al dito: «Virgilio Antonelli
è una mezza celebrità letteraria nelle Marche, benché i suoi versi, già editi, non passino la mediocrità, e meglio
valga la sua autobiografia» [4].
Sarebbero forse contati qualcosa in più, quei versi, se fosse andata in porto l’edizione annunciata sulla prima
pagina della «Domenica Letteraria» del 12 ottobre 1884, dove un lungo articolo redazionale dedicato al poeta
pazzo («mente agitata da tanti affanni, straziata da tante avversità», ma pure dotata di sentimento «profondo,
sincero, nobilissimo») prometteva un suo libro per il celebre e fortunato editore Angelo Sommaruga. Ma la vita e
la psiche di Antonelli dovevano evidentemente coltivare un’irresistibile vocazione all’autodistruzione, perché il
progetto sfuma e lui continua la sua fuga, sconfinando addirittura, sempre a piedi, nel Canton Ticino, tra
Giubiasco e Bellinzona. Le ragioni, forse, sono quelle che ci svela Aldo Barilli nel secondo volume de Il ventre di
Milano (1888), un’opera collettiva coordinata da Cletto Arrighi, uno dei più celebri Scapigliati lombardi: «Un
affamato classico l’ho conosciuto in Giovanni Antonelli, uno zingaro poeta, pieno di ingegno. Sommaruga gli
aveva promesso di stampare i suoi versi. Ma egli fu arrestato e dovette esulare in quel torno di tempo» [5].
Come finiscono le peregrinazioni di questo «zingaro poeta»? Il libro di un pazzo si arresta al 1892; la seconda
edizione dell’anno successivo inserisce qualche altro episodio, non meno avventuroso dei precedenti (un violento
agguato subìto per mano di un buttero a Civitanova, il 23 dicembre 1892; un nuovo arresto a Livorno); i materiali
d’archivio aggiungono dettagli e avvenimenti alla sua vita: uno, in particolare, testimonia una volta ancora
l’angoscia e la rabbia di un uomo perennemente escluso da qualsiasi consesso sociale, sia pure quello di un
manicomio. Si tratta di un foglio di via obbligatorio emesso a Fermo il 3 febbraio 1898 in seguito al fatto che
Antonelli si era presentato presso il manicomio di quella città, minacciando di suicidarsi se non fosse stato accolto
come chiedeva. Sul retro del foglio di via, il «demente» scarabocchia tutto il suo livore, cancellando poi lo sfogo a
colpi furiosi di matita: «Signori del Comune di Sant’Elpidio a Mare. L’uomo più sfortunato di un mondaccio vile
come questo non è neppure padrone d’affocarsi in pace. – No – dopo infinite lungaggini burocratiche, le quali
avrebbero dovuto approdare subito a ciò, fui rinviato qui».
Dopo questo episodio Antonelli probabilmente continuò ad entrare ed uscire da ospedali e manicomi: forse, come
vedremo, tornò ad Aversa, poi a Roma, finché nel 1909 risulta di nuovo a Sant’Elpidio a Mare. È proprio qui che
conducevano, fino a oggi, le sue ultime tracce. Nella prefazione che Filippo Maggiori scrisse per l’ultimo libro
pubblicato (Altri sonetti, 1909), si legge infatti che il poeta girovago viveva in povertà «in una lurida stamberga» di
proprietà del Comune, di fianco al cimitero, sul colle dei Cappuccini. Da allora in poi silenzio totale, e nessuna
idea di quando e dove fosse morto. Un sonetto di questo ultimo libro parla addirittura di un prossimo imbarco per
il Brasile: magari, pensavo, Antonelli è davvero andato a vivere i suoi ultimi anni dall’altra parte del mondo...
E invece no, perché nel settembre 1910 «l’indigente Antonelli Giovanni» passò quasi un mese ricoverato presso il
Civico Ospedale di Macerata, «consumando così una spedalità di £ 40,50», mentre otto anni dopo, il 18 gennaio
1918, il Comune di Sant’Elpidio a Mare ricevette una cartolina dal manicomio di Santa Maria della Pietà di Roma,
in cui si comunicava che «Antonelli Giovanni fu Tommaso, di anni 71, ricoverato in questo Manicomio dal
28 giugno 1898, è morto alle ore 20.30 del giorno 9 c.m. all’Ospizio V.E. II in Ancona per polmonite». Il sindaco
replicò immediatamente che di quest’uomo non sapeva nulla e chiese ulteriori dati all’istituto romano. Da parte
sua il parroco di Sant’Elpidio, interpellato dal primo cittadino, confermò con una nota: anche nei registri della
parrocchia, a un’occhiata forse corriva, non risultava nessun Giovanni Antonelli. Rispondendo al sindaco, il
direttore del manicomio romano precisava allora che il defunto era stato ricoverato a Roma nel giugno 1898,
proveniente dal manicomio di Aversa, ed era stato trasferito all’Ospizio Vittorio Emanuele II di Ancona, dove era
morto, appunto, il 9 gennaio 1918.
Altri sonetti del 1909 era corredato di una foto firmata in calce non con il nome e cognome dell’autore, ma con il
motto Un di nessuno. Mi auguro che questa edizione, arricchita dai documenti inediti che presento qui per la
prima volta, serva a farlo tornare, seppure in modo postumo, uno di noi: Giovanni Antonelli (Sant’Elpidio a Mare,
21 marzo 1848 – Ancona, 9 gennaio 1918).
pubblicato da Massimo Gezzi - http://www.leparoleelecose.it/?p=23156

Note
1 Un genio da manicomio. Autobiografia d’un alienato, Pubblicata ed annotata dal dott. E[nrico] Morselli,
Tipografia editrice di C. Corradetti, Sanseverino Marche 1877.
2 P.C. Masini (a cura di), Poeti della rivolta. Da Carducci a Lucini, Rizzoli, Milano 1978.
3 G. Iannaccone (a cura di), Petrolio e assenzio. La ribellione in versi (1870-1900), Salerno, Roma 2010.
4 C. Lombroso, Genio e follia in rapporto alla medicina legale, alla critica ed alla storia, Bocca, Torino 1882, pp.
343-46.
5 Il ventre di Milano. Fisiologia della capitale morale, per cura di una società di letterati fra i quali A. Barilli, F.
Fontana, L. Speri, O. Cima, F. Giarelli, C. Arrighi ed altri, Aliprandi, Milano 1888, 2 voll. Cito dal vol. 2, p. 33

Arresto in Fermo - Dal carcere al manicomio (cap. VIII)
di Giovanni Antonelli
Ottenni un’udienza dal sotto-prefetto di Fermo per la nota causa che mi rendea frenetico, cioè per trovare una
occupazione che mi permettesse di non morir di fame; ma il suo accoglimento ricordommi Giona ingoiato dalla
balena.
Egli era per scuotere il campanello e farmi arrestare, ov’io non avessi battuto la ritirata. La bile – per sua fortuna –
mi allibì, mi soffocò in guisa che non potei pel momento neppure muover palpebra. Fuori che fui, mi pentii di aver
tenuto un contegno che poteva ascrivermisi a debolezza: ero per porre tutto in non cale, andando a fulminarlo con
lo sfogo della mia giusta indignazione, ma ricorsi ad un espediente che mi rappresentasse senza – credevo –
cadere in trappola. Gli feci consegnare una lettera dall’usciere: ella mi compensava ad usura. Poscia, come
saetta lanciata dall’alto, io mi lanciai nella via scoscesa e volsi le spalle alla città. Ma la mia sollecitudine fu vinta
dalla solerte antropofagia di quel balbuziente, il quale per darmi una risposta villana ci ha impiegato due ore,
mentre per trarmi in gabbia è stato sì zelante! Fui raggiunto da due questurini capitanati dal mascalzone Fanullo,
che additavami loro, presso la nuova barriera. Qual cambiamento! Il posto d’ onore, alla mensa consacrata ad
Imene, sfumava come un castello incantato, ed i tormenti del carcere mi riapparivano giganti. «Filosofia, ci vuol
filosofia» consiglia qualche ipocritone, e mentre così parla sente i brividi di starti vicino, per tema di attaccarsi
l’ingiustizia e la sventura, da cui ti vede oppresso. Io sfido gli stessi Socrate, Diogene, Cicerone ecc. ad esser
filosofi ne’ panni miei. Un’ ora dopo palpitavo nella gattabuia di S. Rocco, fra gli scherni dei birri e le contumelie
dei detenuti. Non possedevo un soldo, ed il vitto del carcere è impossibile; la mia salute intanto cedeva
seriamente. Dietro citazione, comparvi avanti al Tribunale colla mia consueta fierezza. Mi difesi enfaticamente in
guisa che l’avvocato di settimana asserì a suo pieno discarico, di non poter nulla dire riguardo al proprio cliente,
essendosi da sé stesso difeso com’egli non avrebbe saputo difenderlo. Fui condannato a mesi quattro di carcere
per avere scritto una lettera ingiuriosa al sotto prefetto; a giorni venti per insulti contro i questurini (venni assolto
dall’accusa di truffa, consistente in un debituccio di 60 centesimi contratto nell’osteria Cerquona), ed alla
sorveglianza di sei mesi per contravvenzione all’ammonizione inflittami dal cazzabubbolo di Rovigo, quale ozioso
vagabondo e socialista... Ah, se il mio ingegno non fosse depresso per la immane sequela dei patimenti e delle
angherie subite, allor sì – luminare inesorabile – farei capolino sui vostri scanni, e vi ridurrei a disperare nella
ricerca di una cloaca atta a contenere tutte le vostre vergogne! Né la vostra nullità vi permise mai, o vili
pagnottisti, di concepire che a quella vessazione medesima da voi posta in campo con tanta costanza per farmi
soccombere, son io debitore della mia esi- stenza, perché giuro che sarei da tempo spento, ove non mi si fosse
fatta sorgere l’idea di serbarmi a vostro marcio dispetto! Ma anco stavolta il dispetto fu il mio; poiché, la vigilia del
18 marzo ’76, giorno della mia liberazione dall’ingiusto carcere, mi si fa sapere, per mezzo del medicastro di
prigione, che, agitato com’era, non potevo assolutamente uscire dal carcere, ammenoché non accettassi di
lasciarmi trasportare al locale manicomio ove in seguito avrei riacquistata la libertà. Manicomio per me allora non
suonava prigione, anzi un luogo di conforto; onde non esitai a piegare alla esigenza del medico e mi lasciai
introdurre nello stabilimento. – Che vi sentite? – mi chiese il direttore. – Una raucedine inveterata che mi soffoca;
un catarro gastrico che mi dà molestia insopportabile; un incubo immane mi pesa sul cervello e sul cuore. Le
tempie, i polsi, come pesti; i denti conquisi; le mascelle stimolate, con frequenti accensioni al volto; ed altri mille
fenomeni accrescentesi colle vicissitudini atmosferiche. Talvolta vengo paralizzato alle gambe, con brividi lungo la
spina dorsale; tal’altra, o nel contempo, vengo assalito da palpitazione di cuore misteriosa, indefinibile. La vista
tanto indebolita che mi si presentano confusi, indistinti gli oggetti più prossimi. – Quali sono le vostre idee
predominanti? – La disperazione, conseguenza naturale del continuo atroce soffrire. Il concetto del barbarismo
umano – che sfido ad esagerarlo – si è formato sangue e nervi miei; se volessi levarmi colla mente a più miti
pensieri, non mi sarebbe dato neppur di tentarlo, perché i Ruffo, i Vermicchio ed altri cannibali hanno avvelenato
la mia fantasia sin dall’infanzia. Mi sento annichilito: la malvagità cretina degli uomini l’ho sempre dinanzi come
uno spauracchio invincibile, negandomi ogni bene materiale o morale, e perfino la vita. In altri termini: soggiaccio
ad una prostrazione di spirito profondissima, impercettibile agli altri mercè un miracolo di salute e di ragione.
Difatti, sarò un modello di lipemaniaco; ma son più logico, più ragionevole di qualunque savio. Se cesserà in me
tal predominio, amerò, sebbeno odiato e disprezzato. – Con un po’ di docciature fredde – soggiunse il medico più
freddo della stessa doccia – e con qualche annetto di reclusione passerà tutto; state tranquillo. – Io credo che
peggiorerò, direttore. – Se morirete, vi manderemo al cimitero.

Trovai lì dentro una genia femminile tutta intenta a far tridui, novene e simili fandonie che mi facevano recere la
poca minestraccia trangugiata. E sotto il manto dell’ipocrisia, le degne serve di Dio... quattrino, decimano le già
magre competenze degl’infelici ricoverati. La suora Angelina, addetta alla sezione uomini, è tale che per lei
l’appellativo di vipera è un elogio. Idiota e menzognera all’eccesso, si vuole che abbia pure propinato dei
narcotici in maggior dose per mandare altri al suo creatore. Chi più pazzo di queste donne? Quale scopo hanno
per sacrificarsi sin che vivono? Il paradiso no, perché – salvo poche eccezioni – son capaci di qualunque iniquità.
E, d’altro canto, ragioni d’interesse monetario non ne possono aver tutte, perché io ne conosco molte ch’erano
agiate, e molte anco ricche a casa loro. Dunque? Vogliono essere fuori legge, ecco spiegato il mistero! Dopo tre
giorni chiesi l’uscita, ma venni trattenuto per forza in quel luogo, ov’entrai quasi volontariamente. Un giorno
venne a Fermo De Pretis, il vinattiere di Stradella favorito dalla fortuna, la vecchia volpe sì fatale all’Italia, come lo
dipinse il grande, l’unico ministro di essa degno, Camillo Benso di Cavour. Il factotum Cesare Scoccia
scocciavasi le gambe, montando a quattro a quattro i gradini delle scale, per impartire disposizioni, ordini ad hoc.
Fu un vero fanatismo, tanto che, malgrado la sua denominazione, Fermo venne capovolta: negli asili presieduti
dallo Scoccia si lavorò giorno e notte a sudor di sangue pel ricevimento di quel sommo... impostore. Il giorno
seguente – oh, amara disillusione! – il vinattiere se n’era diplomaticamente partito, senza neppure degnare di uno
sguardo l’oggetto di tanti sudori... E più amara disillusione ancora venne appresso; quando cioè, si risolse contro
Fermo la questione del capoluogo, unico movente di quel lavorio servile...
Oh, degl’intenti umani antiveder bugiardo!
Il dott. Bianchini, vicedirettore del manicomio, non si peritava di rendermi la libertà; sopraggiunto il dottor Ciucci,
nella qualifica di direttore temporaneo, credette di migliorare la mia condizione, trasferendomi al manicomio di
Macerata.

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